Loftus Road: una scatola di sardine dove si balla il jazz
Siamo a Shepherd’s Bush, zona ovest di Londra.
Se chiudete gli occhi, potete sentire l’odore. Non è profumo di erba appena tagliata. È odore di pie alla carne, di tè bollente versato in bicchieri di plastica, di sigarette fumate di nascosto. Loftus Road non è uno stadio, è una trappola architettonica. Le tribune ti cadono addosso, il fiato del tifoso della prima fila ti scalda il collo se devi battere un fallo laterale. Qui non c’è spazio per la filosofia. Qui si corre, si picchia, si sopravvive.
Siamo negli anni Settanta, il calcio inglese è ancora una faccenda di geometria operaia: palla lunga, pedalare, fango sulle ginocchia.
Eppure, in mezzo a questo cantiere edile, c’è un uomo che ha deciso di non sporcarsi. O meglio, di sporcarsi a modo suo.
Si chiama Stan Bowles.
Guardatelo. Capelli lunghi, basette che sembrano due scimitarre, la maglia numero dieci che gli scivola addosso come se fosse di seta e non di quel cotone pesante che quando piove diventa piombo.
La palla arriva a lui e il tempo, per un attimo, smette di scorrere alla velocità di Londra. Si ferma.
Bowles non ha fretta. Aspetta. Mezzo secondo. Un battito di ciglia. Quel mezzo secondo è la differenza tra un giocatore e un artista. Il difensore va a vuoto, lui sterza, finta, accelera. Non è calcio accademico. È il jazz suonato in una fabbrica metallurgica. È la strada che entra in campo e spiega ai professori che il corpo mente meglio della bocca.
Collyhurst: scappare dal nord con le tasche vuote
Stan non nasce nella bambagia. Nasce a Collyhurst, Manchester. 24 dicembre 1948. Un regalo di Natale per un quartiere dove la speranza è merce razionata.
In quell’Inghilterra lì, il calcio è l’unico ascensore sociale che funziona, ma è un ascensore che spesso si blocca tra un piano e l’altro. Stan parte dal City, ma è troppo anarchico per i generali del nord. Scende. Crewe, Carlisle. Piazze fredde, stazioni ferroviarie, vento che taglia la faccia.
Sembra uno dei tanti talenti destinati a perdersi nel sottobosco, uno di quelli che finisci a raccontare al pub dicendo "ah, se avesse avuto la testa".
Ma nel 1972, Londra chiama. Il Queens Park Rangers lo prende. E Londra, con le sue luci e le sue ombre, è il palcoscenico che stava aspettando.
La maglia numero dieci e il peso della libertà
Al QPR gli danno la dieci. Una maglia che pesa, che scotta. Lui la indossa come se fosse una camicia a fiori per andare a ballare. Senza tremare. Senza recitare la parte del modesto.
Dal 1972 al 1979, Loftus Road diventa il suo giardino. Oltre 250 presenze, 70 gol. Ma i numeri, come direbbe qualcuno, sono la consolazione dei contabili. Stan Bowles non è una somma di gol. È un'atmosfera.
È il punto in cui l'ordine tattico si spezza e, magicamente, si ricompone in qualcosa di più bello.
C'è una stagione, però. Quella. 1975-76.
Il QPR vola. Gioca il calcio più bello del Regno. Arrivano alla fine. Chiudono secondi.
A un punto dal Liverpool.
Un punto.
Pensateci. Un punto è niente. È un pareggio trasformato in vittoria, è un palo che invece di uscire entra. Eppure un punto è un abisso. È la distanza che separa l'immortalità dalla nostalgia. È una città intera che resta con quella fame in bocca, un sapore di ferro che non andrà via mai più.
L’Inghilterra e i generali che non amano i poeti
E la Nazionale? La Nazionale lo chiama, sì. Ma lo chiama con il contagocce. Cinque presenze. Un gol al Galles nel '74.
Perché? Perché l'Inghilterra vuole i soldati. Vuole gente che obbedisce. Stan Bowles è ingestibile. È uno che porta in campo la stessa meravigliosa indisciplina con cui vive fuori. E i selezionatori, si sa, hanno paura di ciò che non possono telecomandare. Preferiscono un mediano che corre per novanta minuti a vuoto piuttosto che un genio che ti risolve la partita ma che magari la sera prima ha fatto tardi.
I betting shop: l'altra faccia del talento
Per capire Stan Bowles, però, non basta guardare il campo. Bisogna uscire dallo stadio. Bisogna girare l’angolo. Bisogna entrare in un betting shop.
L'Inghilterra degli anni Settanta è anche questo: moquette consumata, fumo denso, il rumore della radio che annuncia le corse dei cani o dei cavalli. Stan vive lì. Scommette su tutto. Gioca con i soldi come gioca con il pallone: azzarda.
La sua filosofia di vita è racchiusa in una frase che è, se possibile, ancora più surreale di quella di George Best. Quando gli chiedono dove siano finiti i suoi guadagni, Stan risponde serissimo: «Ho buttato tutto in vodka e tonica, scommesse e sigarette. Guardandomi indietro, penso di aver esagerato con la tonica».
Non è un modello di vita, certo. Ma è umano. Terribilmente umano. La gente lo ama proprio per questo. Perché non è il professionista asettico che beve acqua naturale e va a letto alle nove. È uno di loro, solo con i piedi di Dio. È la crepa nel sistema in cui tutti si riconoscono.
Il buio della memoria e la luce che resta
Poi, come in tutte le storie che meritano di essere raccontate, arriva il conto.
La festa finisce.
Nel 2015 arriva la notizia. Alzheimer. La malattia della dimenticanza. Il cervello che piano piano spegne le luci, una stanza alla volta. I dribbling, i gol, le urla di Loftus Road... tutto inizia a svanire nella nebbia.
Il QPR lo abbraccia, lo protegge fino alla fine. Stan se ne va il 24 febbraio 2024, a 75 anni.
Ma mentre il feretro esce, mentre i giornali scrivono i coccodrilli, succede una cosa.
Il ricordo non svanisce.
Perché Stan Bowles rappresenta un calcio che non esiste più. Un calcio in cui un numero dieci poteva essere una contraddizione vivente: genio e autolesionismo, allegria e precipizio.
Non è il santino del campione perfetto da mettere in cameretta. È una storia di classe operaia, sporca di fango e di debiti, ma illuminata da un sinistro che, quando voleva, parlava una lingua che nessuno, in quella Londra grigia, aveva mai sentito prima.