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L'Atlético Madrid che smise di chiedere permesso al Bernabéu, vincendo in casa del Real la Coppa del Generalissimo

Dalla “gradona” del Metropolitano alle notti europee: il decennio che trasformò l’Atlético e il suo capitano in un riferimento

Atletico Madrid

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La città che corre e l’ala che respira
Madrid, anni Sessanta.
Non è solo una città. È un cantiere emotivo. È la capitale che prova a scrollarsi di dosso la polvere del dopoguerra e inizia a correre verso qualcosa che assomiglia al futuro, anche se nessuno sa bene che faccia abbia. Il Metropolitano sta per chiudere i battenti, stanco e nobile come un vecchio attore di teatro; il Manzanares sta nascendo, grezzo e ambizioso, sulle rive di un fiume che a volte c’è e a volte no.
In mezzo a questo trasloco dell’anima, c’è una squadra che decide di non essere più l'inquilino silenzioso. È l’Atlético Madrid.
E c’è un uomo. Enrique Collar.
Ala sinistra per mestiere, capitano per vocazione, il tipo di uomo che allarga il campo quando il mondo prova a stringerlo.
L’Atlético di quegli anni non è una squadra di calcio. È una maniera di stare al mondo. È la parte di Madrid che non vuole essere comparsa nel film girato dai vicini ricchi. È la domenica come riscatto settimanale, il calcio come ultimo linguaggio comune quando il resto della settimana è fatto di fatica, lavoro, silenzi e conti che non tornano.
Collar è lì, sulla sinistra.
L’ala di quegli anni non è un giocattolo estetico, non è uno di quei ragazzi con le scarpe colorate che fanno i doppi passi per finire su Instagram. No. L’ala è una funzione sociale. Serve ad aprire un varco, a costringere l’avversario a girarsi, a far capire alla gente sugli spalti, quella gente con le mani ruvide e la sigaretta sempre accesa, che c’è ancora spazio per credere in qualcosa.
Quando si parla di lui, i numeri servono solo a dare un perimetro alla grandezza, non a spiegarla. Quindici stagioni consecutive. 470 partite. 105 gol. E quella fascia al braccio, dal 1960 al 1969. Dieci anni. Nel calcio moderno dieci anni sono un’era geologica; nel calcio di allora erano una vita intera.

Il furto con scasso al Bernabéu: atto primo (1960)
Ora immaginatevi la scena. Non siamo a teatro, siamo in un posto molto più ostile. Siamo al Santiago Bernabéu.
È la casa del Re. È il posto dove ti senti sempre “di troppo”, l'invitato che non ha le scarpe giuste.
Eppure l’Atlético ci entra. E ci vince.
1960. Finale di Coppa del Generalísimo. Di fronte c'è il Real Madrid di Di Stéfano e Puskás, quelli che vincono le Coppe dei Campioni come se andassero a fare la spesa.
L’Atlético la ribalta nella ripresa. Finisce 3–1. In mezzo ai marcatori c'è Collar.
E qui capisci subito che questo decennio non sarà banale. Avrà una trama precisa, quasi letteraria: l’Atlético non vince “nonostante” il Bernabéu. Vince “attraverso” il Bernabéu. Come se dicesse: «Se dobbiamo diventare grandi, non lo faremo di nascosto. Lo faremo qui. Nel vostro salotto buono. Davanti ai vostri occhi».

La recidiva: derby, folla e l’abitudine di non chiedere scusa
Un anno dopo. Stessa cornice, stesso nemico, stesso sapore metallico in bocca.
2 luglio 1961. Finale di Coppa. Ancora Real, ancora Bernabéu.
Finisce 3–2 per l’Atlético.
Queste partite non sono sport. Sono un referendum emotivo. Sono il momento in cui una parte della città alza la testa e dice: «Ci siamo anche noi». E l’Atlético la testa la tiene altissima. Perché in campo non c’è la sorpresa del perdente che azzecca la giornata fortunata. C’è un gruppo di uomini che ha smesso di chiedere scusa per esistere. Uomini che si riconoscono.

L’Ala Infernale: Joaquín e Enrique
Il calcio, quando vuole essere davvero narrazione, ha bisogno di coppie. Di binari paralleli che si incontrano all'infinito.
Sulla fascia sinistra, Collar non è solo. C'è Joaquín Peiró.
Li chiamano «El Ala Infernal». L’Ala Infernale. Una definizione che oggi farebbe sorridere i tattici da lavagna luminosa, ma che allora aveva il peso delle cose semplici e vere. Uno attira, l’altro taglia. Uno tiene palla, l’altro punge. È un dialogo fatto di sguardi brevi, di intese che non hanno bisogno di parole, di palloni messi lì dove l’altro li aspetta da una vita. Una corsia di campo che diventa un corridoio del destino.

Europa, andata e ritorno: Glasgow e Stoccarda
La Recopa 1961–62 è la firma internazionale di quell’Atlético. Ma siccome le cose facili non piacciono a nessuno da quelle parti, la coppa non arriva con una sola notte. Ne servono due.
10 maggio 1962, Glasgow. Finale contro la Fiorentina. Finisce 1–1 dopo i supplementari. Non ci sono i rigori, perché il calcio di allora amava la sofferenza prolungata. Si rigioca.
5 settembre 1962, Stoccarda. Quattro mesi dopo. È un replay, ma sembra un’altra vita.
E qui l’Atlético fa una cosa che somiglia a una dichiarazione di maturità definitiva: vince 3–0. Jones, Mendonça, Peiró.
Pensateci bene. Una squadra di Madrid che va a prendersi l’Europa lontano da Madrid. Niente voli charter di lusso, niente dirette globali. È un viaggio vero. È la sensazione che ogni trasferta sia una prova generale della vita. E Collar, con la fascia stretta al braccio, sta dentro quell’istantanea come ci stanno i capitani autentici: non per farsi fare la foto, ma per ricordare a tutti che quella foto bisogna meritarsela, sudando fino all'ultima goccia.

La notte storta di Rotterdam e la lezione della caduta
Nel 1963 l’Atlético torna in finale di Recopa. Stavolta trova il Tottenham e perde male. 5–1.
Anche qui, nessuna morale da biscotto della fortuna. I periodi d’oro non sono un montaggio cinematografico di sole vittorie. Sono fatti anche di cadute rovinose, di quelle che ti lasciano i lividi sull'anima.
Ma in quella sconfitta c’è un dettaglio che vale più di mille trionfi: l’Atlético non sparisce. Incassa il colpo. Si pulisce il sangue. E torna. Perché il ciclo è vero quando regge anche dopo che ti hanno preso a pugni in faccia.

1965: il Bernabéu come seconda casa (abusiva)
1965. Terza Coppa del Generalísimo nel decennio. Finale contro il Real Zaragoza.
Si gioca, indovinate un po’? Ancora al Bernabéu.
Finisce 1–0.
Qui il punto non è il risultato. È la ripetizione ossessiva del gesto. Vincere una volta in casa del nemico può essere un caso, una stravaganza della storia. Vincere tre volte diventa un’identità. Diventa un vizio.
In quella squadra ci sono nomi che oggi magari non finiscono sui poster dei ragazzini, ma che allora erano la spina dorsale di un popolo: Madinabeytia, Rivilla, Griffa, Calleja. Uomini di ossa e muscoli. E poi Ruiz Sosa, Glaría, Ufarte, Cardona, Mendonça, Adelardo. Un album di famiglia in cui ogni faccia racconta una storia di resistenza.

La Liga del ’66: mettere ordine nel caos
Poi arriva la Liga 1965–66. L’Atlético è campione di Spagna.
E questa, per chi mastica calcio, è la prova del nove. Perché la Coppa la vinci in una notte di follia, la Liga la vinci con mesi di strada, di fango, di domeniche anonime. È il titolo che mette ordine nel decennio. Non più soltanto colpi di mano, ma governo del proprio destino.
Dentro quell’Atlético c’è già un nome che diventerà un monumento: Luis Aragonés. Ma intorno restano i volti del ciclo. E c'è Collar, che tiene insieme tutto con la normalità disarmante di chi non ha bisogno di urlare per farsi ascoltare.

Il trasloco e il ponte sul fiume
2 ottobre 1966. Si inaugura lo stadio sul Manzanares. Quello che poi tutti chiameranno Vicente Calderón.
È un passaggio epocale. Oggi lo raccontiamo con la nostalgia facile, ma allora fu un trauma. Cambiano le strade per arrivare allo stadio, cambiano i bar dove bere il caffè corretto, cambiano i rituali.
Il club saluta il vecchio Metropolitano e apre una nuova casa.
E in mezzo a questo terremoto logistico ed emotivo, chi c'è a fare da ponte? Il capitano.
Collar serve a questo. A garantire continuità. A dire alla gente: «Tranquilli, lo stadio è diverso, ma l'anima è la stessa. Siamo sempre noi». Il calcio, quando si sposta, rischia di perdere se stesso. Un uomo come Collar serve a non far cadere l'anima per strada durante il trasloco.

L’eredità di chi non chiede permesso
Se dovete mettere i nomi in fila, non fatelo come se fossero santini polverosi. Fatelo come se fossero ingranaggi di un orologio perfetto.
Enrique Collar. La costanza.
Joaquín Peiró. Il gemello diverso.
Miguel Jones e Mendonça. Quelli delle notti europee.
Adelardo. Il motore immobile.
Luis Aragonés. Il futuro che bussa alla porta.
E poi gli allenatori: Villalonga, Tinte, Otto Bumbel, Balmanya. Autisti diversi per lo stesso autobus.
L’Atlético di Collar resta nella memoria non perché vinse tutto, ma perché vinse nel modo giusto. Sporco il necessario, duro quando serviva, umano sempre.
Ha vinto le coppe in faccia ai ricchi. Ha vinto l'Europa viaggiando in due atti. Ha vinto la Liga della maturità. Ha cambiato casa senza perdere le chiavi.
E in mezzo c’era lui. Enrique Collar. Un capitano che non recitava la parte del capitano. Un’ala che non correva per farsi vedere, ma per far respirare gli altri.
Quando oggi a Madrid qualcuno, magari un vecchio tifoso col basco e il sigaro spento, dice «l'Atlético di Collar», sta dicendo una cosa precisa: sta parlando di quel decennio in cui l’Atlético imparò a non chiedere permesso. E di un uomo che, per dieci anni, tenne aperta la porta a sinistra come si tiene aperta la porta di casa agli amici.
Anche quando fuori faceva un freddo cane.

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