Elm Park, 1974: quando il calcio odorava di cipolle fritte e tabacco
Siamo a Reading. È il febbraio del 1974.
Dovete immaginarvelo, quel calcio lì. Non ci sono i led a bordo campo, non ci sono i posti numerati, non c'è il VAR che ti dice se puoi esultare o se devi aspettare il permesso di un notaio.
C’è Elm Park. Fari bassi, giallastri, che tagliano la nebbia inglese. L’odore è quello delle cipolle fritte fuori dallo stadio e del tabacco scadente fumato sulle gradinate di legno. È un calcio domestico, intimo. La gente esce dalla fabbrica, si pulisce le mani e va a vedere la partita. Il campo non è un biliardo, è una superficie infame che trattiene le impronte, un misto di erba e fango che ti chiede il conto a ogni passo.
Ed è qui, in questo scenario da rivoluzione industriale in ritardo, che compare lui. Robin Friday.
Non entra in campo chiedendo scusa. Entra come uno che sa che le regole valgono per gli altri. Firma per il Reading e in pochi minuti spiega alla platea un concetto semplice: se sei un genio, il fango non ti sporca. Ti sostiene.
Acton, West London: dove impari che la pelle deve essere dura
Robin viene da Acton. West London. Non è la Londra dei dandy di Carnaby Street. È la Londra del cemento, dei pub dove si entra per bere e si esce per fare a pugni.
La sua non è una favola Disney. È una traiettoria spezzata, nervosa, come un assolo di chitarra elettrica suonato male ma con il volume al massimo. Chelsea, QPR, Reading: le giovanili lo vedono, lo testano, ma poi lo sputano fuori. Perché? Perché Robin è incontrollabile.
Il sistema calcio cerca soldatini, lui è un anarchico.
E allora succede quello che in Inghilterra è la salvezza dei disperati: finisce nel non-league. Il calcio dei dilettanti. Lì non ci sono telecamere a coprirti le spalle o a lucidarti l'immagine. Lì sei nudo. Ci sono solo trasferte su pullman freddi e difensori che usano i gomiti come armi improprie.
Hayes e il teatro dell’assurdo
Prima dei Royals, Friday si ferma all’Hayes. I numeri ci sarebbero anche: 67 presenze, 39 gol. Una media da cecchino. Ma limitarsi alla statistica con Friday è come misurare la bellezza di un quadro guardando quanto pesa la cornice.
Lui non fa reparto. Lui fa teatro.
È in quel limbo che si capisce la sua natura: è un attaccante che gioca per il piacere perverso di umiliare la logica. Dribbla, si ferma, aspetta che il difensore torni, lo dribbla di nuovo. Perché? Perché può farlo. Perché in quel momento, su quel prato di periferia, lui è Dio e gli altri sono solo fedeli che assistono al miracolo.
Reading: due anni e mezzo per scrivere l’eternità
Il Reading, che naviga nella mediocrità della Quarta Divisione, decide di rischiare. Lo prende.
Charlie Hurley, l'allenatore, capisce che uno così non lo devi imbrigliare, lo devi lasciare pascolare. E Friday risponde.
121 presenze, 46 gol. Vince il premio di giocatore dell'anno per due volte di fila. Ma non è questo il punto. Il punto è come lo fa.
Segna gol impossibili. Bacia i poliziotti a bordo campo dopo aver segnato. Fa il giro d'onore. Dice alla gente: «Guardatemi, questo momento ve lo regalo io».
Nella stagione 1975-76, il Reading sale di categoria. Promozione. Friday è il cuore pulsante, l'anima nera e splendente di quella corsa. È l'idolo della working class perché è esattamente come loro, solo che lui, la domenica, sa volare.
Il mito sporco: l’uomo che viveva troppo veloce
Ma il mito di Friday non è pulito. Non è la storia del bravo ragazzo che ce la fa. È la storia di un talento enorme montato su un telaio che non regge la velocità.
Vino, donne, notti che finiscono all'alba, sostanze che non si dovrebbero nominare.
Robin Friday è il proto-punk del calcio inglese. Arriva prima dei Sex Pistols, e fa più casino di loro.
Le biografie non indorano la pillola: il campo lo accende, la vita lo consuma. Sparisce per giorni, torna all'allenamento ancora sbronzo, gioca la partita della vita e poi scappa via. È scomodo. È ingestibile.
Ed è proprio per questo che la gente lo ama alla follia. Perché in un mondo che sta diventando business, lui è ancora selvaggio. È vero.
Cardiff e la fine della corsa
Poi, la crepa diventa voragine.
A cavallo tra il '76 e il '77, il Reading non ce la fa più. Lo vende al Cardiff City.
Lui arriva in Galles con la leggenda addosso e i demoni dentro. La prima partita è un riassunto della sua esistenza: arriva in treno all'ultimo minuto, senza biglietto, viene arrestato dalla polizia ferroviaria, lo tirano fuori giusto in tempo, scende in campo e segna due gol al Fulham di Bobby Moore. Bobby Moore, il capitano dell'Inghilterra campione del mondo.
Ma è il canto del cigno.
Dura poco. 25 anni. Dicembre 1977. Friday dice basta.
Smette.
Non perché è rotto fisicamente, ma perché è rotto dentro. Si è annoiato. Il sistema vuole trasformarlo in un professionista, e lui professionista non lo sarà mai. Preferisce fare l'asfaltatore di strade piuttosto che obbedire a un allenatore che gli dice a che ora andare a dormire.
Il più grande che non avete mai visto
C'è un libro, uscito nel 1997, scritto da Paolo Hewitt e Paul McGuigan (il bassista degli Oasis, gente che di eccessi se ne intende). Il titolo è una sentenza: The Greatest Footballer You Never Saw. Il più grande calciatore che non hai mai visto.
Non ci sono quasi video di Friday. Solo racconti orali, leggende da pub, ricordi sfocati.
E questa assenza di prove è la sua forza.
Friday è come il "Trinche" Carlovich a Rosario. Giocatori che non hanno bisogno delle coppe in bacheca, perché hanno la testimonianza della gente.
Nel 2022 il Reading lo ha nominato "Giocatore del Millennio". Del millennio. Non degli anni '70. Del millennio. Vuol dire che il suo fantasma corre ancora su quella fascia, più veloce di chiunque sia arrivato dopo.
Acton, 1990: l’ultimo atto
L'epilogo è scritto nel prologo.
22 dicembre 1990. Robin Friday viene trovato morto nel suo appartamento di Acton. Attacco cardiaco, dicono i medici. Overdose di eroina, sussurrano i biografi.
Aveva 38 anni.
Se ne va giovane, come i poeti maledetti, come le rockstar.
Ma forse era l'unico finale possibile.
Di Friday non ci resta la bacheca trofei. Ci resta l'idea. L'idea che un tempo, nel fango di Elm Park, il talento poteva essere irregolare, sbagliato, autodistruttivo e meraviglioso.
E quando un vecchio tifoso del Reading, con gli occhi lucidi, ti dice «Io l'ho visto», non sta vantando una memoria. Sta rivendicando un privilegio. Il privilegio di aver visto l'uomo che avrebbe potuto essere tutto, e scelse di essere niente, pur di rimanere libero.