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31 Dicembre 2025
Il fallo di Goikoetxea su Maradona
C’è un secondo preciso in cui capisci che non stai più guardando una partita. Lo capisci dal suono: non è boato, non è fischio. È il vuoto. Poi arrivano i passi dei medici, le facce girate, qualcuno che si porta le mani alla testa come se bastasse quello a rimettere a posto le ossa.
Questa non è una galleria di replay. È un elenco di episodi con un “dopo” tracciabile: referti, stop, verdetti, squalifiche, ammissioni pubbliche. Perché il calcio, quando si fa duro, lascia sempre una ricevuta.
Siviglia, 8 luglio 1982. Semifinale mondiale, una di quelle partite che sembrano già scritte nel marmo prima ancora che inizi il supplementare. Battiston entra da poco, è fresco, ha ancora addosso l’illusione che in una serata così conti solo il pallone.
Poi Platini lo pesca. Uno scatto, un controllo, la porta davanti. Schumacher esce come uscivano allora: non “in anticipo”, ma “in avanti”. Battiston tocca la palla e per un attimo sembra tutto normale. Subito dopo, no: la collisione lo spegne, lo lascia a terra come un oggetto abbandonato nel punto più sbagliato del campo.
Intorno succede qualcosa che in tv si vede sempre poco e però allo stadio si sente benissimo: la paura. Non l’indignazione. La paura, quella che ti fa abbassare la voce. E mentre i compagni richiamano l’arbitro, il calcio fa la cosa più crudele che possa fare: va avanti.
Dopo (quello che resta):
In campo: nessun fallo e nessun cartellino.
Battiston: esce incosciente e le ricostruzioni riportano due denti persi, costole incrinate e vertebre danneggiate.
L’episodio diventa uno dei casi simbolo della storia dei Mondiali: più famoso del risultato, più pesante di qualsiasi moviola.
Barcellona, 24 settembre 1983. Camp Nou. È l’inizio di stagione e Diego è ancora un corpo umano che fa cose disumane: accelera, frena, cambia direzione e sembra sempre un attimo prima degli altri.
Goikoetxea arriva da dietro, non è un contrasto “duro”: è un intervento che ti dice una cosa sola, senza bisogno di sottotitoli. Quando Maradona cade, chi ha giocato lo capisce subito: non è una caduta, è una resa del corpo. Quel suono — lo racconterà lui stesso — ha qualcosa di legno che si spezza.
Il pubblico non ha tempo di scegliere da che parte stare. Perché non è più tifo: è istinto. La barella entra come entra la realtà quando pensavi di essere in un film.
Dopo (quello che resta):
Maradona: diagnosi riportate come frattura al malleolo/lesione legamentosa (ricostruzioni concordi).
Goikoetxea: la sanzione viene comunicata come 18 giornate, poi ridotta (le cronache e le ricostruzioni storiche parlano di una riduzione progressiva).
Diego torna in campo dopo circa tre mesi e mezzo, accelerando i tempi attesi.
Germania, 14 agosto 1981. Bundesliga. Qui il contesto è semplice e spietato: un campo, un uomo che corre, un altro che arriva con i tacchetti. E una coscia che, dopo l’impatto, smette di essere “gamba” e diventa ferita.
È uno di quegli episodi che sopravvivono per un motivo preciso: perché la mente, anche se non vuole, torna sempre lì. Non c’è epica, non c’è romanticismo: c’è il corpo umano che ricorda a tutti il suo limite.
Lienen reagisce in modo quasi irreale: si alza, va verso la panchina avversaria, protesta. Come se il dolore fosse una cosa secondaria, come se la vera ferita fosse l’idea che quella scena potesse passare come “normale”.
Dopo (quello che resta):
Ferita: ricostruita come taglio profondo di 25 cm.
Sutura: 23 punti.
Rientro: secondo le ricostruzioni, torna ad allenarsi dopo 17 giorni.
Manchester, 23 agosto 2006. Premier League. Una palla contesa, un contatto che non è “duello”: è un colpo. Mendes finisce contro i cartelloni e per un attimo lo stadio non sa nemmeno come reagire, perché la scena non assomiglia più a una partita.
Qui la brutalità non sta solo nell’azione. Sta nel contrasto tra quello che vede chi è presente e quello che decide chi arbitra: in campo arriva il giallo, come se fosse una scivolata un po’ nervosa. Ma il corpo di Mendes racconta un’altra storia.
E allora entra in scena il secondo tempo vero, quello che non si gioca sul prato: commissioni, comunicati, sanzioni. Il calcio che si guarda allo specchio e, per una volta, ammette che non basta dire “si gioca”.
Dopo (quello che resta):
Mendes: finisce incosciente e viene ricoverato.
In campo: Thatcher prende solo ammonizione.
Dopo: arriva una squalifica FA di otto giornate (con ulteriori elementi sanzionatori collegati al caso).
Birmingham, 23 febbraio 2008. Eduardo entra in area. È l’attimo in cui un attaccante sente di poter fare la cosa che gli riesce meglio: scegliere un angolo, anticipare il difensore, essere leggero.
Taylor arriva pesante. Scomposto. Fuori tempo. E l’immagine diventa subito troppo forte perfino per la televisione: le riprese indugiano poco, perché qui non c’è nulla da “rivedere”, c’è solo da distogliere lo sguardo.
È uno spartiacque anche nel modo in cui si parla di punizioni: tre giornate sono una misura che il sistema usa spesso, ma qui il mondo intero chiede se basti. Perfino FIFA, che di solito resta sullo sfondo, si fa sentire.
Dopo (quello che resta):
Eduardo: infortunio descritto come gamba rotta con conseguenze importanti, riportate anche come lussazione della caviglia in diverse ricostruzioni.
Taylor: squalifica FA di tre giornate (standard), poi discussione pubblica enorme.
FIFA: chiede alla FA di rivalutare la sanzione.
Stoke, 27 febbraio 2010. Ramsey è giovane, leggero, uno di quelli per cui i tifosi fanno piani: “quando cresce”, “quando prende ritmo”, “quando…”. Poi arriva l’intervento, e quei piani si accartocciano in un secondo.
Shawcross esce in lacrime, espulso. Non è un dettaglio: è la prova che anche chi commette il gesto capisce subito d’aver oltrepassato una linea. Il pubblico rumoreggia, ma non è rabbia: è lo smarrimento che ti prende quando la violenza irrompe dove avevi messo la speranza.
Il resto è chirurgia, tempi lunghi, comunicati che dicono “fratture” con una freddezza che non consola nessuno. Il calcio, da lì, ricomincia solo quando Ramsey torna a fidarsi del suo stesso passo.
Dopo (quello che resta):
Arsenal conferma fratture a tibia e fibula e l’intervento chirurgico.
Shawcross: espulso.
Ramsey: stagione finita, recupero lungo (comunicato e ricostruzioni ufficiali).
Manchester, 21 aprile 2001. Derby. Qui il calcio non è solo sport: è memoria, rancore, conti aperti che passano di generazione in generazione anche se nessuno li firma.
Keane entra duro su Haaland. È un gesto che, in quell’Inghilterra, molti avrebbero archiviato con una scrollata di spalle e due frasi da pub. Ma questa storia non finisce lì. Perché, tempo dopo, non è il replay a far esplodere il caso: è una frase scritta, nero su bianco, in un’autobiografia.
E quando l’intenzione entra negli atti, il gioco cambia natura: non parli più di “contrasto”, parli di responsabilità. È la federazione a intervenire, e la sanzione diventa un precedente: severa, pesante, pensata anche per dare un segnale.
Dopo (quello che resta):
La FA contesta a Keane condotte che “portano discredito” al gioco, legate alle dichiarazioni nel libro.
Sanzione: cinque giornate di squalifica e multa di 150.000 sterline.
Johannesburg, 11 luglio 2010. Finale mondiale. Tutti si aspettano tensione, sì, ma non una scena che sembra uscita da un’altra disciplina: il piede alto, i tacchetti sul petto, Alonso che si piega e poi si rialza con la faccia di chi sta scegliendo di non cadere.
L’arbitro è Howard Webb, finisce per essere anche una storia sua. Perché il cartellino non è rosso. È giallo. E in un finale del mondo, un giallo pesa come una scusa detta male.
Il punto non è “cosa sarebbe successo se”. Il punto è che, dopo, lo stesso Webb dirà pubblicamente che sì: avrebbe dovuto espellere De Jong. È raro che un arbitro metta la propria decisione dentro la narrazione ufficiale di una finale. Qui accade. E quel “dopo” diventa parte della partita quanto il gol di Iniesta.
Dopo (quello che resta):
In campo: ammonizione, non espulsione.
Dopo: Webb ammette pubblicamente che, rivisto l’episodio, sarebbe stato da rosso.
Madrid, aprile 2009. Real–Getafe. L’azione è già brutta, ma quello che la rende indimenticabile è la coda: Pepe non si limita al fallo, perde il controllo, insiste. È come se per un momento dimenticasse che davanti ha un collega, non un bersaglio.
Qui il calcio non ha bisogno di moralismi: basta vedere la sequenza per capire che non è più agonismo. È impulso. E quando succede in uno stadio così, con quella maglia addosso, l’eco diventa enorme.
La federazione spagnola non tergiversa: la squalifica è di quelle che entrano nei libri per il numero, prima ancora che per le immagini. E in quel numero c’è un messaggio semplice: certe cose, anche se succedono in un secondo, non possono essere trattate come una parentesi.
Dopo (quello che resta):
Sanzione: dieci giornate decise dalla Federazione spagnola (commissione disciplinare).
Fortaleza, 4 luglio 2014. Brasile–Colombia. Neymar è il volto di un Mondiale in casa: non è solo un giocatore, è una promessa nazionale. Nel finale prende una ginocchiata alla schiena. Cade e il tempo si deforma: sembra che l’azione duri molto più del normale, perché tutti capiscono che non è una botta qualunque.
Poi arrivano le parole che nel calcio fanno più paura di tutte: frattura. Vertebra. Torneo finito. Il Brasile vince la partita, ma perde il simbolo. E quello che accade dopo — lo sappiamo tutti — sembra quasi una reazione a catena emotiva, un vuoto che diventa fragilità collettiva.
Dopo (quello che resta):
Diagnosi: frattura di una vertebra.
Conseguenza: Neymar fuori dal Mondiale.