Scuola Calcio
26 Luglio 2022
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Quasi un anno fa fu il Franco Scarioni a finire nell’occhio del ciclone per il caso denunciato di un bambino che sarebbe stato allontanato dalla società a mezzo di una mail. Allora la società di via Tucidide difese la sua immagine e il suo lavoro fornendo una versione differente da quella raccontata, ma quando ormai il caso era divenuto di portata nazionale e l’opinione pubblica già passata oltre al momento di sentire l’altra campana. Nei giorni scorsi un quotidiano nazionale ha rilanciato l’argomento dopo una nuova segnalazione, riportata questa volta in maniera anonima. Il tema è sempre lo stesso: Pulcini, secondo le ricostruzioni, non confermati dalle società di appartenenza con messaggi scritti, e genitori costretti a mentire ai bambini per mitigare l’esclusione e i possibili traumi di quella che verrebbe vissuta come una vera e propria bocciatura.
IMMAGINI DI REPERTORIO
La questione è importante e certamente molto delicata, motivo per cui abbiamo interpellato diverse realtà del panorama milanese (diverse anche per politica societaria), per comprendere più a fondo l’entità del fenomeno e il sentimento dei diretti interessati. Il quadro che ne è emerso, e che è possibile leggere più dettagliatamente in alcuni commenti dei singoli riportati in coda, è piuttosto conforme nei suoi contorni. A Milano esistono sostanzialmente tre tipologie di società che operano nell’attività di base. Ci sono quelle che notoriamente operano una selezione già dalla categoria Pulcini, puntando già in tenera età a un consolidamento tecnico finalizzato alla costruzione di piccoli calciatori, da valorizzare ulteriormente all’interno dei propri settori giovanili o da cedere in molti casi a realtà professionistiche; ce ne sono altre che rappresentano una via di mezzo: la selezione avviene a partire dagli Esordienti e in maniera più graduale, con l’intento di mantenere un certo equilibrio tra la valorizzazione dei profili migliori e il garantire continuità anche agli altri; e poi ci sono le società che non operano nessuna scrematura fino al passaggio nei Giovanissimi. Qui, tutti i bambini sanno che potranno completare un percorso preagonistico in un ambiente meno competitivo.
Dai pareri raccolti è opinione comune il fatto che, a fronte di questa diversa “geopolitica” del calcio cittadino, chi iscrive il proprio piccolo in una Scuola Calcio debba essere cosciente della scelta che andrà a fare, a proprio “rischio e pericolo”. Emerge qui una prima anomalia, se così si può definire: le società della prima categoria sono sempre le più ambite, ed è comprensibile visto che un genitore vuole sempre offrire il “meglio” al proprio figlio, e il fascino esercitato delle società più vincenti e prestigiose della città è ovviamente molto grande. Il problema nasce però quando le difficoltà tecniche o atletiche del bambino si discostano dagli standard perseguiti da un determinato club, tanto da arrivare a una non conferma che la società notifica per concentrare il proprio lavoro su prospetti più dotati. Che talvolta le modalità di tale notifica denotino una certa mancanza di sensibilità è un dato reale (capita in qualche caso che siano i dirigenti a doversi prendere l’incarico), ma centrare troppo la discussione su questo aspetto sarebbe limitante, se non del tutto strumentale. L’aspetto emerso dal contatto con le società è la comune coscienza di una varietà d’offerta e di richiesta che non può venir condannata “a priori”, ma che anzi dev’essere interpretata come possibile risorsa, nell’ottica di permettere a ogni bambino e ragazzo di poter giocare in un contesto adatto alle sue caratteristiche. Cosa che non accadrebbe se tutte le società operassero allo stesso modo.
Ascoltando i dirigenti appare forte la rivendicazione della propria identità e metodologia, senza però che questa vada a sconfessare l’operato altrui. Comune, altresì, è il riscontro di una crescente difficoltà comunicativa con la componente genitoriale, sovente scottata dallo scarto tra aspettativa e realtà. Il fatto che una delle interpellate abbia preferito rimanere anonima per evitare questioni dà l’idea di quanto questo sia un nervo scoperto per le società.
Una frizione che nasce da una criticità di fondo: il calcio di base, secondo i dettami federali, è qualcosa che per definizione dovrebbe garantire a ogni bambino lo stesso diritto di praticare lo sport in qualsiasi contesto. Dissociato dal concetto di agonismo e di risultato, legato invece a una dimensione prima di tutto ludica e aggregante: sociale, in sintesi. Nessuna classifica, nessuna competizione, nessuna pressione ma soltanto puro divertimento fino almeno alla preadolescenza. Tutto questo ha senso, ma forse soltanto nella teoria. Nella pratica i bambini sono competitivi per natura, la stessa natura ingenua e spontanea che li porta ad accapigliarsi tra loro, a piangere e a sorridere con la loro proverbiale semplicità. Avviluppare tutto questo in un protettivo batuffolo di cotone non è possibile. O magari lo è, appunto, solo in teoria. Qualcuno ha detto che il calcio è sempre metafora della vita: e là fuori il calcio è anche questo, pur a livello dilettantistico o semiprofessionistico: un ambiente soggetto come tutto quanto a regole di mercato: domanda e offerta che fanno parte di un sistema da declinare e interpretare con saggezza in base alla propria esperienza.
Miope appare dunque l’esercizio di addossare alle società sportive tutta la “colpa” di circostanze come quelle denunciate sulle colonne della stampa nazionale. O di pensare che a operare quelle scelte di selezione siano forsennati allenatori desiderosi soltanto di alimentare il proprio ego e la propria bacheca. Così come approssimativo sarebbe ridurre alle intemperanze di genitori esagitati le cause di queste zone d’ombra nel calcio dei più piccoli.
Difficile essere in disaccordo sul fatto che escludere un bambino di otto anni sia “una cosa brutta” in senso assoluto. Soprattutto se comunicata con mezzi poco empatici. Ma è altrettanto arduo non ammettere che per ogni bambino sia più consigliabile andarsi a confrontare sempre in un contesto consono alle proprie attitudini.
Per il Centro Schiaffino è Alessandro Buschi a illustrare la posizione sull’argomento: «Da parte nostra non andiamo mai a “tagliare” i bambini troppo piccoli. Una scrematura arriva nel passaggio tra le categoria Pulcini e Esordienti; principalmente per questioni di spazi, ma anche tecniche. Riteniamo che in quel momento ci debbano essere delle caratteristiche e abilità; se queste non sono state raggiunte pensiamo che sia giusto cambiare. Cerchiamo però di mantenere anche i ragazzi in uscita vicino a noi, per chi vuole; la recente collaborazione che abbiamo intrapreso con la Suprema Odb, per esempio, servirà anche a questo, per rimanere tutti nella stessa orbita nel contesto di una società amica. Ad ogni modo il rapporto con i genitori non sempre è semplice in questi casi; capita che questi non siano coscienti del livello tecnico dei propri figli, o che non vogliano riconoscerlo apertamente; o ancora che il passaggio a una società vicina e meno competitiva sia visto in maniera negativa». Buschi si sofferma poi su una delle questioni più controverse della vicenda, cioè le modalità di comunicazione: «Le lettere? In passato è capitato anche a noi di farlo, proprio nell’ottica di evitare magari delle discussioni; ora gestiamo tutto con dei colloqui individuali, senza dubbio la cosa migliore».
Così il presidente del Circolo Giovanile Bresso, Marco Tagliabue: «Nel momento in cui si porta un bambino a giocare in un certo tipo di società un genitore deve aspettarselo. La trovo una cosa normale e non ci vedo nulla di scandaloso. Certo sono importanti le modalità di comunicazione, oltre all’essere trasparenti fin dall’inizio sperando che i genitori capiscano (e non sempre è così). Per quanto ci riguarda gestiamo le presenza tra le nostre squadre FIGC e CSI, ma sempre al nostro interno».
Il dirigente che ha rilasciato la seguente analisi ci ha chiesto di omettere il riferimento diretto alla sua società: «Devo dire che è sempre più difficile riuscire a far collimare l’aspetto sociale e quello sportivo che ci contraddistinguono da sempre. Nei Pulcini noi non facciamo nessun tipo di selezione ma dobbiamo comunque affrontare delle problematiche legate alla gestione dei bambini di livello differente. A volte ci sembra che l’idea di qualche genitore sia quella di lasciarci il bambino in società per quelle due ore, a fare qualcosa che magari a lui neanche piace. Ci sono bambini che arrivano con difficoltà motorie prima ancora che tecniche; a noi il risultato non interessa ma ai bambini sì, è la loro natura, di piccole persone che non hanno filtri ed esternano tutte le loro emozioni; e loro sono la prima discriminante nell’inserirne “per forza” uno che è molto più indietro. Non gli allenatori, o la società: chiunque abbia giocato a calcio lo sa. Ciò che è cambiato è che oggi sembra un po’ tutto “dovuto” rispetto al passato: tutti i bambini devono poter giocare a calcio, e tu società devi prenderli tutti, o li discrimini; anche quando magari sarebbero più portati, o più desiderosi di fare altri sport».
Il nuovo responsabile neroverde Andrea Faccenda espone la linea societaria sull’argomento: «Non nei primi calci, ma dai Pulcini in su la selezione è qualcosa che dobbiamo fare nell’ottica di alzare sempre il livello e considerando la grande richiesta che abbiamo. Il nostro, però, non è mai un “mandare via” in senso stretto, bensì un aiutare direttamente il bambino a trovare un nuovo spazio adatto, una diversa società della zona che può magari aver bisogno a sua volta di colmare dei numeri, quando noi abbiamo degli eccessi che non riusciamo ad accogliere nei centri di Milano e di Peschiera. Sempre se il genitore è d’accordo, ma generalmente la chiarezza paga e viene apprezzata. Quando accade è un passaggio che facciamo attraverso un colloquio e una comunicazione preventiva nei tempi corretti (di solito entro il 30 giugno così che si possano liberamente fare degli Open Day presso altre società). È sempre con modalità consone all’età in questione del bambino o del ragazzino. Tengo a precisare inoltre che le scelte non sono mai a carico degli allenatori, che al massimo possono fornire dei feedback, ma mie, che sono il responsabile e ci metto giustamente la faccia».
Sull’argomento interviene anche Bice Passera del Villapizzone: «Credo che questa problematica si può verificare nel momento in cui il genitore non è del tutto consapevole del contesto in cui va a inserirsi in termini di politica societaria. E magari può rimanere deluso nel non veder applicati quei principi di cui ha sentito parlare, e che si sarebbe aspettato. Il calcio però è una grande metafora di ciò che accade nella vita, e lì sta proprio a lui mediare nel modo corretto con il bambino affinché un’ipotetica esclusione non diventi un’esperienza traumatica, accompagnandolo in un’altra realtà dove quei principi sono sempre garantiti. Così come è cruciale il ruolo degli istruttori nello stimolare i ragazzi con più difficoltà tecniche o atletiche. Ogni presidente sceglie la sua impostazione societaria, l’importante è che questa venga conosciuta ed esposta con chiarezza - prosegue la dirigente gialloviola -. Credo che il fatto di usare una mail o una lettera sia per cercare di prendersi meno problemi. Oggi come oggi tendiamo a fare tutto con WhatsApp, sembra tutto più facile così, anche se è sicuramente più brutto. Penso ad ogni modo che certe denunce andrebbero fatte indicando il nome della società della quale si sta parlando, e non in maniera anonima e generica».
Questa l’analisi da parte di Andrea Nardozza, responsabile della preagonistica di casa Assago: «Da noi questa è una cosa che non esiste perché tariamo i nostri numeri sugli spazi e non andiamo oltre. Per i Pulcini facciamo rose di dieci elementi, alla fine si va al campo in 7-8, ma sono contento così, è giusto che i bambini possano qualche volta dedicare il fine settimana ad altro con le loro famiglie. Lavoriamo tanto sui secondi gruppi, ci sono bambini che vanno aspettati; alcune tra le soddisfazioni più grandi che ho avuto negli anni sono state proprio con ragazzi che davano per “spacciati”. Come in altri sport, del resto, dipende dal contesto a cui ti rivolgi, da quanto questo è competitivo e da come questo viene spiegato all’inizio. È vero, d’altro canto, che la gestione genitoriale è materia sempre più difficile a partire dall’ambiente scolastico per arrivare a quello sportivo. C’è meno onestà intellettuale nella valutazione delle capacità del proprio figlio, ed è difficile a volte distinguere tra ciò che arriva da un bisogno o una sensazione del bambino e ciò che invece è solo una pretesa del papà. Per questo ci tengo molto nel parlare con gli adulti. Quando prendo un bambino a giocare voglio vedere anche chi è il genitore».
«Io un bambino non lo mando mai via, in nessun caso. Questo è il mio pensiero, così come è quello della nostra società. Ed è così da sempre. Se me ne arriva uno più forte di quelli che ho già? Cerco di trovare il modo migliore per tenerli tutti». Fermo sull’argomento della selezione nelle categorie dei Pulcini ed Esordienti Cristian Vecchi del Baggio Secondo, società che mantiene sempre una forte identità nel calcio provinciale milanese: «Da altre parti succede, ma il problema vero, secondo me, è che spesso i genitori portano comunque lì i bambini, pur conoscendo in anticipo il tipo di società in cui vanno, e consapevoli del rischio che potrebbero correre di fronte a un livello più alto. Portare il proprio bambino in quella realtà rimane comunque un’attrattiva forte per loro». Il rapporto delicato con le famiglie è una questione molto sentita anche in casa gialloblù, così come le criticità che si creano nel momento in cui si devono fare movimenti interni per una maggiore omogeneità delle squadre: «Non mandiamo via nessuno ma è giusto che le squadre vengano composte per livelli; capita però di avere a che fare con genitori che protestano, anche in maniera molto forte, quando provi a spiegargli che il figlio sarebbe più adatto a giocare in un altro gruppo».
Riccardo Nichetti Stanghellini, responsabile del Real Crescenzago si esprime così sul tema: «Noi impostiamo un lavoro di otto anni, diviso in quattro bienni, in cui chiariamo da subito il fatto che non selezioneremo nessuno fino al passaggio nell’agonistica. Non posso tuttavia condannare chi lo fa, perché parliamo di società che fanno un lavoro diverso. E da una parte è anche grazie a questo lavoro che società come la nostra possono offrirsi di portare avanti un percorso più lineare, garantendo spazi a tutti».